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Riceviamo e con grande onore pubblichiamo alcune storie di Romano Bairo resi ancora piú preziosi dal racconto attento, scrupoloso e carico di affetto del figlio. Onore !

Ricordi di guerra

Mio padre Bairo Romano, era nato il 20 marzo 1921, è stato un soldato appartenente alla trentacinquesima compagnia del 3°battaglione Susa durante l’ultima guerra mondiale.

In alcune parti di questo racconto non sono citate né date né località in quanto mio padre non ricordava o non sapeva i nomi dei luoghi e le date precise di quando siano avvenuti, anche gli episodi citati non è detto che siano in ordine cronologico, sono comunque fatti ed episodi reali di cui è stato partecipe nel periodo della seconda guerra mondiale.

Di certo so solo che il 6 giugno 1941 era a Susa, ho una sua lettera che riporta tale data e luogo, nella quale avvisava i suoi che non sarebbe potuto essere a casa per la festa patronale di San Pietro, Santo patrono della nostra comunità di Devesi, una frazione del comune di Ciriè, che normalmente si svolge l’ultimo fine settimana del mese di giugno.    

Da quanto mi aveva raccontato si ricordava di essere stato prima in Francia a Lansleburg poi a Thermignon. Per tutto il tempo trascorso in quei luoghi la sua compagnia non partecipò a combattimenti limitandosi al solo presidio delle zone affidate in quanto il governo francese aveva già firmato la resa.

Tornato per un breve periodo a Susa, il battaglione partì in treno per Bari, dove, con una parte di altri battaglioni o compagnie che erano da poco rientrate dal fronte Greco, venne imbarcato per il fronte Montenegrino.

Finite le operazioni di sbarco si avviarono a piedi verso l’interno della regione in una zona alpina alla ricerca dei partigiani di Tito che agivano da tempo in quella zona.

Dopo una marcia di tre giorni senza cibo, tranne quel poco portato nello zaino, né acqua, in quanto la zona era totalmente arida, priva di sorgenti e le operazioni di sbarco del vettovagliamento e dei rifornimenti andavano a rilento, finalmente giunsero nella località individuata per posizionare l’accampamento, nella notte arrivarono i camion delle vivande e l’acqua così poterono dissetarsi.

Appena due o tre giorni dopo il piazzamento del campo base, l’accampamento subì un forte attacco con bombe di mortaio e il tentativo di sfondamento della linea di difesa da parte del nemico. Una delle prime bombe probabilmente sparate da un mortaio centrò in pieno la tenda della squadra di mio padre uccidendo quattro soldati, che colti di sorpresa erano rimasti all’interno ancora intenti a munirsi di fucili e munizioni. Tutta la compagnia si dispose immediatamente a difesa dell’accampamento. Mio padre era secondo mitragliere e portamunizioni, posizionarono la mitragliatrice al riparo tra due rocce e cominciarono a far fuoco verso quella parte di bosco da dove giungevano gli spari e da dove sopraggiungevano i nemici. Tra il fumo delle bombe, sia di mortaio che continuavano a cadere, sia di quelle a mano che venivano lanciate dai nostri verso gli assalitori e delle armi mi disse che dopo pochi minuti tutta la radura era completamente avvolta da una coltre nero-bluastra, non si vedeva assolutamente più niente. Tuttavia continuavano a sparare nella direzione dalla quale giungevano le pallottole alcune delle quali colpivano il terreno facendo partire schegge impazzite, altre fischiavano sopra le loro teste. Una di esse colpi in pieno il primo mitragliere, siccome il poveretto era chinato in avanti nell’intento di mirare e di sparare raffiche, la pallottola lo colpì tra la spalla e il collo gli attraversò tutto il corpo uscendo dal lato opposto al fondo della schiena appena sotto le costole. Dall’urto ricevuto fu letteralmente sbalzato all’indietro di alcuni metri rimanendo allo scoperto sotto il tiro nemico che continuava a sparare verso di lui che giaceva a terra gravemente ferito. Mio padre tra una raffica e l’altra, continuava di dirgli di stare fermo, in modo che lo credessero morto, ma il poveretto in preda al dolore urlava e continuava a dimenarsi. Approfittando di un momento di tregua della sparatoria riuscì a prendere per i piedi il ferito e a trascinarlo al riparo delle rocce, giunsero poi i barellieri che lo portarono verso l’ospedale da campo. A questo primo attacco durato alcune ore, segui poi una controffensiva e l’inseguimento del nemico che durò fino al tramonto. Verso sera quando fece ritorno al campo mio padre si recò immediatamente verso le tende dove era stato predisposto l’ospedale militare. Decine di feriti più o meno gravi stavano ancora aspettando l’intervento del personale medico che non era sufficiente e scarsamente dotato di mezzi idonei per assistere un tal numero di feriti, molti morirono nella stessa notte attendendo invano cure che nessuno poteva dare. Su una barella trovò l’amico ormai cadavere. Era nativo di Ceretta, una frazione di San Maurizio, una cittadina che dista appena due chilometri da Ciriè e da casa nostra.  Alla fine di quella prima giornata di guerra della sua squadra formata da dodici soldati, mi disse, ne rimanevano in piedi incolumi solo quattro. Nei giorni seguenti ci furono ancora attacchi di minore entità più che altro con bombe di mortaio ma non mi ricordo se mi parlò di altre vittime. 

Nelle settimane (o mesi) seguenti tutta la compagnia fu impegnata nei rastrellamenti nei paesi circostanti alla ricerca dei partigiani ritenuti responsabili dell’attacco al campo. Le operazioni avvenivano più o meno in questo modo. Le truppe venivano portate con i camion nelle vicinanze dei paesi che dovevano essere oggetto di rastrellamento, fatte scendere, a piedi perquisivano armi in pugno casa per casa, gli uomini, a volte anche anziani, venivano caricati sui camion e deportati in una località a lui sconosciuta, mentre le donne e i bambini venivano immediatamente rilasciati.

Alcuni mesi dopo il battaglione fu impegnato in una dura battaglia durata diversi giorni per la conquista di un avamposto nella quale subì molte perdite. La postazione oggetto di conquista era posta in alto rispetto ai nostri soldati i quali tentavano di avanzare tra il fuoco nemico accovacciandosi dietro dei massi o degli avallamenti per poi scattare in piedi sparando e correndo verso un nuovo rifugio adocchiato in precedenza. Ovviamente molti venivano colpiti dal nemico che era ben nascosto e al riparo. Di quei giorni mio padre ricordava il coraggio del suo capitano che incurante delle pallottole che gli fischiavano intorno, in piedi arrampicandosi su per il pendio scosceso esortava i suoi alpini a seguirlo.  L’operazione si concluse con la conquista della posizione e la fuga del nemico ma con gravi perdite da entrambe le parti.

Tutta la compagnia o il battaglione fu poi impegnato nel tentativo di liberare un altro battaglione accerchiato sulle montagne. La marcia di avvicinamento alla zona durò tutto giorno e continuò anche la notte. Purtroppo arrivarono tardi. Quando arrivarono sul luogo a terra giacevano decine e decine di morti, forse centinaia, ma la cosa più atroce che apparve a loro occhi fu in una radura poco distante da quel gruppo di cadaveri. Altri corpi di soldati nudi o seminudi giacevano orribilmente mutilati, soldati che vistosi sopraffatti probabilmente si erano arresi ed erano stati barbaramente torturati da quel che si poteva capire per ore. Molti di loro erano stati evirati e i genitali gli erano stati infilati in bocca, altri ancora erano stati impalati, erano stati trafitti con palo di legno appuntito infilato nell’ano e ancora gli usciva dalla pancia, segni di lesioni provocate da percosse date con ferocia e altre orrende ferite apparivano anche lungo tutto il corpo dei poveri soldati. Solo poche volte mi raccontò di questo episodio, potete capirne il motivo. Giurò a se stesso che avrebbe combattuto fino alla morte se fosse stato necessario e come ultima soluzione piuttosto di arrendersi si sarebbe sparato un colpo di fucile.

Passarono buona parte giorno ad identificare i morti e a cercare di dare loro una degna sepoltura quando all’improvviso una delle sentinelle che era appostata su un crinale dette l’allarme. Un folto gruppo di nemici stava tornando su dall’altro lato della montagna e si stava dirigendo velocemente verso la cresta. Temendo un nuovo accerchiamento mio padre con altri commilitoni percorsero di corsa la distanza che li separava dalla cresta. Giunsero per primi in tre o quattro sul crinale mentre il nemico non era lontano più di un centinaio di metri e iniziarono a sparare sui primi che stavano avanzando di corsa. Quello mi disse, fu l’unico giorno che ebbi la certezza di aver ucciso qualcuno, perché mentre loro tentavano di avanzare li vedevo cadere sotto i nostri colpi. In poco tempo la maggior parte del resto della sua compagnia giunse sulla cima continuando a far fuoco infliggendo gravi perdite al nemico. L’azione si concluse con la ritirata delle truppe nemiche che lasciarono a terra molti cadaveri.

 Il cane randagio. Racconto questo episodio anche se non ha nulla a che vedere con azioni di guerra, ma rende una immagine abbastanza chiara su come erano le condizioni dei soldati al fronte. Un cane randagio, probabilmente affamato, cominciò a seguire la truppa durante un trasferimento nella speranza che qualcuno gli desse qualcosa da mangiare. Mio padre estrasse dallo zaino un pezzo di pane e glielo diede, da quel giorno quel cane divenne il suo miglior compagno. Durante le fredde notti dell’inverno balcanico la bestiola si infilava sotto le sue coperte in cerca di un po’ di calore, in ogni modo mio padre cercava di ricacciarlo fuori, ma appena si riaddormentava se lo ritrovava di nuovo addosso. Un giorno parecchi soldati spinti dalla fame non avendo altro erano decisi a mangiarselo, mio padre lo difese ad ogni costo, per fortuna dopo una animata discussione riuscì a dissuaderli dall’intento e il cane ebbe salva la vita.

Venne poi il giorno in cui cominciò la ritirata, qui ci furono altri attacchi da parte dei partigiani che tentavano di fermare il rientro non ricordo se di forte entità. Lasciate alle spalle le montagne si diressero verso il mare e i porti da dove poi sarebbero stati rimpatriati. Di quel periodo si ricordava bene la confusione e lo sfaldamento che regnava tra i soldati senza più ordini precisi, probabilmente anche per le tante perdite subite dagli ufficiali e dalle truppe, la fame, e il fatto di essere arrivati su quello che sembrava, visto dall’alto delle montagne, essere un lago che si rilevò ricco di tartarughe delle quali tutti i soldati ne mangiarono con avidità non avendo altro. Percorsero la costa finché arrivarono nei pressi di un porto. Credo che quella fosse la grande insenatura del mare nei pressi di Cattaro, ma è una mia supposizione. Nei giorni che seguirono più navi partirono verso l’Italia finché anche per loro giunse il momento di imbarcarsi. Si ricordava bene che col resto del battaglione o meglio quel che ne rimaneva, ed altre truppe miste di essere sbarcato a Bari verso la metà di settembre del 1943. Qui dopo alcune ore di sosta sulla banchina del porto, in una breve riunione col loro capitano furono consigliati e invitati dal loro superiore di tornare ognuno a casa propria, dividendosi in piccoli gruppi, evitando le strade principali, i treni e altri mezzi di trasporto, in quanto se fossero stati fermati dai tedeschi sarebbero stati deportati o fucilati. Una volta poi tornati a casa di unirsi alle formazioni partigiane che operavano nella loro zona. Cominciò così il lungo viaggio a piedi da Bari a Torino. Si riunirono per gruppi di appartenenza delle varie località.  Mio padre e altri commilitoni del Canavese, non so quanti fossero  non gliel’ho mai chiesto, partirono verso nord. Viaggiavano quasi sempre dopo il tramonto a volte sfruttando il chiarore della luna finché non giungeva il buio della notte, trovando riparo nei boschi di notte , per non spaventare chi abitava in quei posti isolati, e di giorno nei cascinali dove , a quanto mi disse, furono sempre nutriti ,vestiti , e trattati con grande affetto e cura da parte di tutta la popolazione che via via incontravano sul loro cammino. In una località non precisata una signora addirittura regalò a mio padre un vestito nuovo e un paio di scarpe nuove di suo marito, anche lui partito in guerra e del quale non aveva più avuto notizie da parecchio di tempo. Avevano passato mesi e mesi camminando in montagna con trenta e più chilogrammi nello zaino, quindi senza più tutto quel peso delle armi, munizioni è quant’altro, per loro sette otto ore di cammino non gli costava nessuna fatica mi diceva. Non so quanto durò il viaggio, calcolando circa una trentina di chilometri al giorno, e il fatto che percorsero buona parte dell’Appennino nella zona collinare su strade secondarie, credo un paio di mesi o giù di lì. Tornato a casa cercò di dare una mano alla sua famiglia di contadini, mio padre era il primogenito di sette figli di cui cinque femmine, a quel tempo tra i 20 e 10 anni. Per lunghi periodi fu costretto ad allontanarsi da casa per sfuggire ai rastrellamenti da parte dei fascisti, che uniti da truppe tedesche operavano in questa zona collaborando saltuariamente con gruppi di partigiani, più che altro per la sua conoscenza delle armi.